Smart working (se lo è davvero) come farlo

Smart working (se lo è davvero) come farlo: durante la Pandemia le aziende hanno riorganizzato il loro lavoro, ma come lo hanno fatto?

Smart working (se lo è davvero) come farlo

Durante la Pandemia tutte le aziende hanno dovuto improvvisamente “delocalizzare” i propri dipendenti ed organizzare il loro lavoro da remoto. Nessuno ha avuto il tempo di capire quale fosse il modello corretto per questo cambiamento, né le regole applicabili, senza poi proteggere il sapere aziendale (know-how) che è stato affidato alla diligenza e ai mezzi usati. Un processo di esternalizzazione del lavoro senza precedenti, qualificato da molto “smart working”.

Ma lo è davvero? Spesso si è trattato di ben altro…

…infatti il primo problema è stato (ed è tuttora) capire se le persone che hanno ricevuto l’incarico di lavorare “da remoto” ossia da casa, si trovassero a rendere prestazioni di smart working o meno.

Il lavoro da casa, chiamato anche “home working” in realtà non può e non deve essere con la modalità “smart”. L’emergenza ha permesso di scoprire quanto era già stato promulgato dalla L.81/2017, il famoso o famigerato Job Acts che ha permesso di rispolverare questo strumento: l’art. 22 ci spiega cos’è lo smart working.
Purtroppo la fretta non ha consentito ai più di comprendere quale fosse la portata dell’istituto giuridico e dunque dello strumento.

Occorre distinguere fra smart working e telelavoro

Infatti molte aziende hanno aderito con fiducia al modello decentrato senza comprendere pienamente di cosa si trattasse e spesso, confondendolo con smart working.
L’importanza della distinzione tra i due istituti non solo non è residuale, ma è sostanziale perché espone le imprese a poter contare su benefici fiscali e finanziari che discendono da bandi o agevolazioni derivate dall’adesione a questo istituto.

In altre parole, laddove l’imprenditore confidi nel poter avere accesso a bandi di finanza agevolata per aver aderito al modello smart working, potrà essere sicuro di poter contare su questi importi se e solo se ha la certezza che non si tratti di telavoro.
Infatti, il telelavoro è strumento ben diverso: la tecnologia è esclusivamente aziendale, il luogo è la propria abitazione, l’orario di lavoro è lo stesso applicato in ufficio e dunque la rilevazione della presenza importante a tal fine, la sicurezza del lavoro e ogni retribuzione.

Smart working: cos’è davvero?

Lo smart working, viceversa è un modello che si fonda non su un numero di ore prestabilite, ma su un obiettivo raggiungibile in un arco di tempo che coincide con la quota di tempo settimanale stabilita dal CCNL di riferimento, in luoghi diversi ma approvati.
Si lavora dunque per obiettivi, la tecnologia può essere diversa a seconda di chi la mette a disposizione esistono infatti modelli diversi per questo, ma gli strumenti devono essere preventivamente approvati dal datore di lavoro che decide di consentirne l’uso per l’espletamento delle mansioni di lavoro del personale.

I diversi modelli di gestione

La gestione infatti può variare con riferimento alla proprietà dei dispositivi usati: secondo il modello COPE, Corporate Owned, Personally Enabled, l’azienda fornirà al dipendente il device mobile, consentendogli però abilitazioni d’uso personali, quali l’utilizzo di particolari App o social network.

Questo modello permette quindi di avere una maggiore sicurezza del sistema informatico grazie al dominio aziendale sulla scelta e sulla gestione del dispositivo fisico ed al contempo di gratificare il dipendente mediante la concessione all’utilizzo di app personali.
Il modello COBO, Corporate Owned, Business Only prevede che  sia l’azienda a fornire il dispositivo che potrà essere utilizzato soltanto per le attività lavorative e si farà carico del funzionamento e della manutenzione dello stesso.

Invece il modello di gestione CYOD, Choose Your Own Device è quello secondo il quale l’azienda, permette al dipendente, a seguito di autorizzazione, di utilizzare il proprio dispositivo personale per le attività lavorative. 
Sarà possibile per l’azienda ridurre in parte i costi sulla manutenzione e sulla sicurezza, potendo l’azienda limitare l’utilizzo soltanto ad una piattaforma operativa (Android, iOS, Windows). 

Smart working (se lo è davvero) come farlo: durante la Pandemia le aziende hanno riorganizzato il loro lavoro, ma come lo hanno fatto?
Smart working (se lo è davvero) come farlo

Byod: perché è il modello più utilizzato?

Ma la gestione che risulta più conosciuta e maggiormente diffusa è il BYOD: ovvero Bring Your Own Device, è il modello di gestione dei dispositivi mobili dove l’azienda consente ai dipendenti di usare i propri dispositivi mobili per poter accedere al sistema informativo aziendale.
Tale modalità permette, oltre ad un risparmio in termini di acquisto e manutenzione dei dispositivi fisici, anche una notevole semplicità di utilizzo da parte dei dipendenti.

Le falle nascoste dietro allo smart working

La repentinità con cui le aziende sono ricorse, ma sarebbe più corretto dire, sono corse ai ripari, all’uso dello smart working ha generato non poche “falle”. Intanto non è dato sapere se gli obblighi di legge previsti dalla legge 81/2017 sono stati assolti puntualmente dall’impresa, che da un giorno all’altro ha decentrato il lavoro degli impiegati.
Ed è una situazione che oggi si è venuta a consolidare nel tempo.
Molti infatti hanno proseguito il lavoro “da remoto”, ma senza disciplinare questo modello di lavoro con un contratto e senza creare una nuova organizzazione che punti al risultato e non alla confusione o al fraintendimento.

Il know-how aziendale

Altro tema “caldo” è la protezione delle informazioni aziendali: aspetto tanto cruciale quanto strategico dell’impresa.
Non si tratta di proteggere solo i dati personali, di dipendenti, fornitori o clienti, ma di tutelare l’intero know-how aziendale, che attualmente è del tutto esternalizzato e dunque esposto ad ogni forma di speculazione: potrebbe essere carpito, alterato, danneggiato, ceduto a terzi, violato, compromesso.
Nessuno era pronto, non lo erano le imprese e neppure i dipendenti, che non sono stati addestrati a dover cambiare modo di lavorare e per di più in un luogo diverso dall’ufficio.
Laddove questa organizzazione, come pare stia avvenendo, si riveli maggiormente sostenibile per l’impresa e congeniale al dipendente, occorre intervenire senza ulteriori ritardi per coniugare tecnologia e regole.

Proteggere l’impresa magari dalla dispersione di informazioni, anche non voluta, da parte del dipendente o dalla aggressione da parte di terzi interessati.
Costruire modelli e regole adeguate alla tutela di tutti e tutto, persone e Azienda, è il metodo giusto.
Lo avete fatto? Se la risposta è no, potrebbe rivelarsi un pericoloso boomerang.

L’effetto boomerang di un’errata conversione al digitale

L’improvvisazione e l’innovazione approntata col “fai da te” non fanno mai prigionieri, senza un approccio di competenza multidisciplinare, che sappia creare valore, adeguando tecnologia, persone e metodi.
La soluzione è saper reagire al cambiamento.
La conversione al digitale deve procedere con metodo e con una visione che vada oltre l’adozione di dispositivi e software ed hardware che da soli, aiutano i processi, senza preoccuparsi di una integrazione necessaria all’interno della realtà dell’Azienda.

Il ruolo centrale della formazione

La formazione in questo contesto assume un ruolo importante per garantire percorsi e procedure che siano conosciute e note a tutti i dipendenti, non solo regole astratte contenute in documenti nemmeno troppo conosciuti.
Creare valore significa dare consapevolezza di mezzi e di modalità operative che possano evitare incertezze e dubbi tanto per chi lavora quanto per l’imprenditore.
E’ venuto il momento di coniugare la tecnologia con i processi, le regole e la formazione.
Sarà così possibile generare una cultura aziendale condivisa e una nuova organizzazione capace di produrre risultati e custodire la conoscenza, quale patrimonio esclusivo del fare impresa. Il futuro è già oggi. Noi siamo pronti ad accompagnarvi.

Avv. Laura Lecchi